Con il passare degli anni l'unica cosa che lei ancora ammirava di me era il mio lavoro di
intarsio e di intaglio.
Era a pochi passi da me e ammirava "l'ultima cena" che stavo intagliando su una tavola di ciliegio africano. Mi guardava con una certa ammirazione, ma non l'uomo bensì l'artista.
Erano trascorsi sette lunghi anni da quel dì nel quale mi scelse come sua vittima, ma almeno da quattro ci univa solo "il sesso", un sesso-amore che mi teneva legato a lei come prigioniero di un sentimento tra l'odio e l'amore.
Aveva un corpo scultoreo, trasudava sesso a vista d'occhio, sembrava dicesse "prendetemi".
Ma non riuscivo ad allontanarla da me, ero vittima dei suoi tradimenti sfrontati e
sfoggiati, vittima senza dignità, umiliato, esiliato e rimpatriato tra le sue cosce
agognate; ero come schiavo, come burattino del quale lei muoveva i fili a suo piacimento.
A volte mi scioglievo in un pianto, quando mi diceva ti "pianto", e gli restavo
accanto, perché l'amavo tanto!
I nostri discorsi erano ormai formali, solo dialoghi fatti di sì e di no e su argomenti occasionali.
"Sei bravo", mi disse, "quei personaggi sembra che parlino!"
Era sincera lo sapevo, l'unica cosa che amava ancora di me era il mio lavoro.
Spronato dal suoi approcci di dialogo e dei complimenti ricevuti, abbozzai un dialogo sull'argomento del momento e
dissi: "certo che questa epidemia della mucca pazza sta buttando alle ortiche intere aziende, e i lavoratori del settore."
"Sei il solito ignorante" replicò lei , "il termine epidemia si può usare quando si parla di
infezioni e patologie umane, per gli animali si usa il termine epizozia, ma tu sei
il solito "ZOION" e se vuoi sapere cosa significa ti informo che vuol dire animale vivente,
in pratica ciò che sei."
Giuro, l'avrei intagliata o meglio intarsiata, incastrando in lei un cuore più buono, una mente più umile e sentimenti come rispetto, affetto, amore, cose mai esistite dentro di lei.
A volte cresceva dentro me un'angoscia che mi buttava nella disillusione più nera
perché vivevo con lei, prendendo i suoi scarti, i pochi attimi di sesso che mi donava; e quando lo faceva mi portava così in basso fino ad annullare l'uomo fisico e morale: in
quei momenti aveva tutto di me, anima e corpo.
Perché mi faceva quell'effetto? Perché pur avendolo pensato e detto varie volte non avevo
il coraggio di andare fino in fondo e di partire per chissà dove, basta che sia
lontano da lei?
Mormorò ancora varie cose; dentro di me cresceva una strana rabbia, alzai il braccio con impeto e la
colpii; nell'attimo finale, prima di vibrare il colpo decisivo di martello, provai paura, paura di farle del male.
Emise solo un lieve gemito e si accasciò sul pavimento. I suoi lunghi capelli le coprivano
il viso, il suo dolce viso di fata. Scostai piano i capelli, i suoi occhi neri erano fissi, stupiti.
Piansi per lei, recitai come Catullo una bellissima poesia, che incisi su un enorme tronco di rovere
siciliano. Poi cominciai il mio grande capolavoro finale: scolpii lei.
Ero sudato e stanco, affamato da matti; per due giorni lavorai ininterrottamente per lei; e lei era lì, sublime, adagiata dentro la sua dimora, dentro quel meraviglioso tronco di rovere dei nebrodi; la baciai teneramente; poi con abbondante colla vinilica la sigillai. All'esterno la intagliai nuda come una Venere, nella parte superiore circondata da fiori e piante bellissime.
Col muletto portai quel tronco all'ingresso del capannone, lo issai, lei era
lì, bellissima come un bronzo di Riace, solo che era di rovere siciliano.
Poi mangiai i suoi pesci rossi, unici esseri viventi che amava, bevvi l'acqua,
ed ero come "liberato", feci un bel falò con le sue cose;
infine sfinito l'ammiravo, sembrava parlarmi, ma non favellò, la insultai, mi sfogai dissi cose mai dette; ero felice e triste insieme.
Ricevetti molte offerte per anni, per quel mio capolavoro; tutti potevano ammirarla, ma nessuno poté più averla: ormai era solo mia e per sempre.
I suoi amici, amanti, vennero ad informarsi, a cercarla, ma lei era partita, chissà con quale amante e chissà per dove.